La mia storia
E’ il 20 dicembre. E’ il 2003. Quest’anno Natale sarà ancora più bello, sono al settimo cielo. E’ sabato e il fine settimana prima delle feste natalizie porta in sé la promessa di serenità e gioia che io già sento, cullata dal prossimo arrivo del mio terzo figlio.
Tutto è perfetto nella mia vita, di quella perfezione che solo la quotidianità contiene, con i minuscoli problemi e le difficoltà banali che si attraversano quando si sperimenta la semplice normalità. Ho un lavoro, sono impiegata in un’impresa edile, mi occupo dell’amministrazione e di faccende più pratiche legate all’attività dell’azienda.
Tra i tanti colleghi, Giuseppe Perrone è il geometra con cui devo interfacciarmi di più, mi fa spesso anche da autista, anche perché, gestendo gli spostamenti di denaro e i pagamenti degli altri dipendenti e il valore che con loro trasporto, ho bisogno di una figura che mi affianchi e mi protegga… che mi protegga!
Di primo pomeriggio squilla il telefono, è lui. “Che strano” – penso – “che vorrà di sabato?”, ma rispondo, ligia al mio dovere e senza alcun motivo per non farlo visto che questo ragazzo, più giovane di me di quattro anni, si è sempre dimostrato molto gentile ed educato, di poche parole, mai un eccesso o un segno di squilibrio. Al cellulare lo sento agitato, penso subito che sia successo qualcosa al lavoro, ma lui non dà spiegazioni dettagliate, mi chiede solo di incontrarci, insiste e la sua inquietudine mi spinge ad accondiscendere. Non ho motivo di sospettare nulla che riguardi la mia incolumità, nemmeno mi sfiora un solo infinitesimo barlume di sospetto che possa mettermi in allarme. E’ persona di fiducia sul posto di lavoro, mi viene spontaneo assecondarlo.
Quando ci troviamo mi fa salire in macchina, parte, dopo qualche minuto gli chiedo di accostare per chiamare mio marito, anche se ancora non realizzo il pericolo. Parlo con lui che si trova al circo con i nostri bambini e mio padre e lo avviso di questa mia uscita. Non faccio quasi in tempo a riattaccare che sento un colpo alla testa. Il primo di una serie.
Il primo.
Di una serie.
Mi porto le mani al capo, vedo il sangue che comincia a colare, mi giro e lo scorgo con in mano un martello con cui si accanisce nuovamente su di me inferendomi altri colpi. Cado a terra, lui prosegue a calci e pugni e ripete: “Non posso averti, meglio ucciderti”. Non ancora soddisfatto, prosegue nel suo intento. Nella sua mano compare un coltello con cui mi colpisce al ventre squarciandolo, mettendo fine alla vita di mio figlio, meravigliosa creatura mai nata. Avevo appreso della sua presenza da poco, non ne conoscevo ancora il sesso.
A questo punto va verso l’auto, penso e spero che abbia finito, ma mi sbaglio. Lo vedo tornare con una tanica e ora ho l’assoluta certezza che mi vuole morta. Comincia a versarmi il liquido infiammabile addosso e, una volta svuotato il contenitore, mi dà fuoco. Tutto di me brucia, i miei capelli, la mia pelle, la mia carne. Non so con quale lucidità realizzo che l’unica possibilità di salvezza che mi rimane è il fingermi senza vita. Così è, convinto di aver portato a termine il suo obiettivo, il mio aggressore se ne va lasciandomi a terra con le fiamme vive ad avvolgermi il corpo.
Quello che accadde dopo è la storia di come mi sia aggrappata alla vita con le unghie e i denti, una vita divisa in due da questa spaccatura, dai minuti impiegati dal mio aggressore a compiere lo scempio che mi ha sconvolto l’esistenza. E’ la storia della mia rinascita, che passa attraverso l’inferno di quattro mesi di ospedale e innumerevoli interventi chirurgici, proseguiti per anni per restituirmi un aspetto umano.
Nonostante fossi pervasa dal dolore, ebbi la forza di spegnere le fiamme, alzarmi e cercare aiuto. Attraversai la barriera di filo spinato che separava la via in cui mi trovavo dall’autostrada, nella ricerca disperata di aiuto. Probabilmente non si capiva nemmeno che cosa potessi essere date le condizioni della mia figura massacrata. Finalmente una coppia di ragazzi, che io considero angeli inviati dal cielo, incrociò il mio percorso, mi raccolse e mi portò in ospedale. Non so con quali forze mantenni lo stato di coscienza, quel tanto che bastò per consegnare il nome di Giuseppe Perrone ai sanitari, dopodiché entrai in coma. Trascorsero nove giorni prima che tornassi in quel che era rimasto di me.
Il mio inferno era appena cominciato, al centro grandi ustioni di Palermo subii trattamenti dolorosissimi per far sì che la mia pelle bruciata potesse rigenerarsi. Prelevarono lembi da diverse parti del corpo dove la cute era ancora intatta per innestarle sulle lesioni maggiormente profonde. La sopportazione del male durante le sedute di fisioterapia per permettere ai tessuti di rimanere elastici era al limite delle mie possibilità di resistenza.
Resistetti a questo e alla sofferenza psicologica dovuta non solo alle condizioni fisiche, ma a tutto il fango che il mio assalitore riversò sulla mia persona, diffondendo notizie non veritiere sulla mia condotta e sulla mia vita, coinvolgendo così tutta la mia famiglia, i due figli piccoli che avevo e quel marito meraviglioso che mi è rimasto sempre accanto.
Non potei godere nemmeno del diritto di una giusta pena: Perrone si avvalse del rito abbreviato, e nonostante i capi di imputazione che gli furono riconosciuti (tra cui tentato omicidio con l’aggravante della premeditazione e l’interruzione di gravidanza, oltre alle sevizie operate con estrema crudeltà) che avrebbero dovuto portare a un totale di circa cinquant’anni di carcere, la sentenza indicò un verdetto definitivo di quattro anni di reclusione per una serie di attenuanti generiche e il rito abbreviato. Avete letto bene: quattro anni. Alla fine trascorse qualche mese agli arresti domiciliari, perché beneficiò pure dell’indulto.
La mia esistenza è ripartita nel momento in cui ho riaperto gli occhi e ho deciso che la mia voglia di vivere mi avrebbe salvata. Quattro anni dopo è nata mia figlia Federica, il mio riscatto, l’affermazione concreta della mia forza.
Mi voleva morta, ma io sono viva… libera di vivere.